Rimborso rette RSA: 87 mila euro tornano nelle tasche degli eredi
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Continua il trend di vittorie per i familiari dei pazienti che, affetti da patologie gravi, sia stato necessario ricoverare in RSA.
Dopo le recenti pronunce favorevoli rese dalla Corte di Appello di Milano, questa volta è il turno dei magistrati di Bologna (sent. n. 2082/2025 pubblicata lo scorso 4/12 u.s.) che, dovendo deliberare il gravame spiegato dagli eredi di paziente (prematuramente deceduto), ha motivatamente accolto l’appello, annullando il decreto ingiuntivo richiesto dalla struttura di soggiorno per il saldo delle rette che erano rimaste insolute, oltre a riconoscere a loro favore il rimborso dei quasi 87 mila euro spesi fino ad un certo periodo.
Le articolate motivazioni contenute in questa sentenza mettono però in risalto alcuni aspetti davvero interessanti e, comunque, meritevoli di attenzione sia per le conferme raccolte, che per alcune novità espresse.
La vicenda
La Corte felsinea si è trovata ad esaminare le doglianze degli eredi di un paziente (purtroppo deceduto) che, spiegata opposizione avverso il provvedimento con cui veniva loro ingiunto il pagamento di oltre 53 mila euro per le rette di soggiorno non pagate, erano usciti sconfitti dalla decisione del Tribunale di Parma, che confermava la debenza della somma richiesta dalla struttura.
Sintetizzando, i molteplici motivi di appello obiettavano come il giudice di primo grado avesse erroneamente ricondotto la patologia, di cui era affetto il paziente, al di fuori di quelle per cui era prevista la fornitura di prestazioni ad elevata integrazione sanitaria impendendo, per ciò solo, l’applicazione dei principi sanciti dalla normativa vigente che, di fatto, poneva a carico del SSN ogni onere economico, senza possibilità di rivalsa sul degente ed i suoi familiari.
La difesa della struttura si opponeva fermamente all’accoglimento di queste argomentazioni, deducendo in breve come il ricovero del paziente fosse avvenuto per ragioni meramente assistenziali, e non certo sanitarie, risultando quest’ultime limitate alla sola somministrazione, peraltro parziale, di alcuni farmaci, non sussistendo neppure un piano terapeutico individuale, ma unicamente un trattamento medico-psichiatrico che, in ogni caso, non avrebbe coperto l’intero periodo del soggiorno.
La decisione
Addentrandosi nelle motivazioni, che hanno poi condotto la Corte felsinea al completo ribaltamento della decisione del Tribunale di Parma, viene innanzitutto in rilievo la circostanza per cui, in tempi successivi, le strette congiunte avevano sottoscritto due contratti di degenza a favore del paziente, impegnandosi personalmente ed in solido con quest’ultimo, al pagamento delle rette dovute per il tempo dell’intero soggiorno, conclusosi con il decesso.
Ciò posto, si è quindi passati al cuore della questione, avendo cura di ripercorrere, in primis, i principali strumenti normativi a disposizione, ossia il DCPM 8/08/85 ma soprattutto DPCM 14/2/2001 con annessa elencazione delle 3 tipologie di prestazioni possibili (a rilevanza sociale, a rilevanza sanitaria e, da ultimo, socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria), ricordando come le ultime debbano essere erogate a spese del fondo sanitario.
Successivamente, la Corte si è fatta carico di un dettagliato e completo excursus giurisprudenziale richiamando le numerose pronunce che, nel tempo, sono andate a delineare le linee interpretative da seguire, ricordando come tutte le volte in cui la prestazione sanitaria non possa essere somministrata se non congiuntamente con quella socio-assistenziale, l’intero trattamento deve considerarsi sostanzialmente unico, accollandolo così al Servizio Sanitario Nazionale, senza diritto di rivalsa.
“La classica distinzione” – come affermano i giudici di appello – “tra costi sanitari (a carico del SSN) e costi residenziali (a carico del Comune, con eventuale partecipazione dell'utente) non può più operare quando sia proprio la struttura a rendere possibile la contestuale accoglienza residenziale e la prestazione di un'adeguata assistenza terapeutica, e di conseguenza tale inscindibilità dei due aspetti determina una prevalenza dell'aspetto sanitario, comportando una assunzione dell'intero costo a carico del SSN”.
Non solo Alzheimer
Di assoluto pregio la parte in cui la decisione, rispondendo alla critica per cui la malattia rilevata nel caso concreto non fosse riconducibile al morbo di Alzheimer, spiega come, pure nelle patologie mentali (come ad esempio, la demenza fronto-temporale) allorchè vengano fornite entrambe le prestazioni, l’attività nel suo complesso assume comunque rilievo sanitario poiché – come si legge richiamando precedenti sul punto – “le prestazioni rese in favore del malato psichico rientrano tra le prestazioni socio-assistenziali ad elevata integrazione sanitaria, interamente a carico del S.S.N. (Cass., 27/7/2021, n. 21528), precisando che risulta dirimente ai fini della individuazione della prestazione, tra quelle di rilievo sanitario, la circostanza che non si è in presenza di una mera attività di sorveglianza e di assistenza, ma di un trattamento farmacologico somministrato in struttura residenziale protetta in favore di un soggetto affetto da grave patologia psichiatrica (Cass. n. 22776 del 2016)”.
Ricordando la rilevanza di un piano terapeutico personalizzato, ovvero della necessità di realizzarlo alla luce della patologia riscontrata, della sua prevedibile evoluzione dal momento del ricovero in poi e della conseguente necessità di apportare un trattamento assistenziale e sanitario integrato per contenere l’evolversi della patologia e le sue naturali conseguenze degenerative, la Corte ha quindi ribadito come per rinvenire, in un caso concreto, l’inscindibilità fra le due distinte prestazioni è pur sempre necessario individuare, come indicato dalla Cassazione nella sua decisione n. 27452/25, “una malattia ingravescente ed un piano terapeutico integrato inscindibilmente collegato alla prestazione di assistenza e cura della persona”.
Calati i principi che precedono nel caso concretamente affrontato, si è quindi apprezzato come il paziente avesse sempre evidenziato, nel corso del pluriennale soggiorno, il bisogno di ricevere, rispetto alle patologie accertate e della loro prevedibile evoluzione futura, “un trattamento sanitario strettamente e inscindibilmente correlato con l'aspetto assistenziale, perché volto, attraverso le cure, a rallentare l'evoluzione della malattia e a contenere la sua degenerazione, anche in comportamenti potenzialmente dannosi per terzi”.
La sentenza
Esaminato il contenuto della documentazione clinica prodotta, fra cui la cartella sociosanitaria redatta al momento del ricovero e le schede, successivamente compilate fino al termine del ricovero, dove veniva evidenziato un quadro di comorbilità piuttosto complesso e caratterizzato da “demenza multifattoriale, cardiopatia ischemica, ipertensione arteriosa; peg, ictus ischemico”, la Corte è giunta alla conclusione che la fattispecie fosse comunque da ricondurre alle ipotesi normativamente previste dall’art. 3, comma 3, del DCPM del 14/02/2014, con conseguente gratuità delle prestazioni rese.
Dichiarata pertanto la nullità, ex art. 1418 e 1419 c.c., degli accordi sottoscritti dagli eredi del ricoverato, è stato quindi annullato il decreto ingiuntivo, nulla dovendo a saldo delle rette non pagate, si è altresì affermato il diritto degli eredi alla restituzione in loro favore di quasi 87 mila euro, a suo tempo corrisposti per la degenza del loro familiare.
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